menu celiberti roll








riga_rossa

LUIGINA BORTOLATTO

LUCIANO CARAMEL

FABRIZIO D'AMICO

LICIO DAMIANI

GIORGIO DI GENOVA

AMEDEO GIACOMINI

MARIO DE MICHELI

ERNESTO UGO GRAMAZIO

JEAN PIERRE JOUVET

BRANE KOVIČ

CAMILLO SEMENZATO

VITTORIO SGARBI

EMILIO VEDOVA

MARCELLO VENTUROLI

ANDRE' VERDET

Giorgio Celiberti

Il momento risolutivo della contestazione informale di Celiberti è stato una suggestione di contenuto: il suo incontro con le poesie dei bimbi ebrei morti a migliaia nel carcere napoleonico di Maria Teresa presso Praga, Terezin. Certo la molla delle figurazioni del pittore friulano su questo tema è stata principalmente umana, egli è stato fortemente commosso dalla straziante urgenza di quelle parole vergini, di quegli uomini di così pochi anni, adulti per forza di morte. Tanto che volle documentarsi su quegli ambienti in taluni viaggi, soprattutto ad Auschwitz, dove potè constatare come certe immagini ormai categoriali nella cultura dell’uomo d’oggi conservino nella realtà una suggestione potente, reticolati e spranga menti, mura, scritte, finestre. Ed ecco che i suoi “impacchettamenti” informali hanno trovato in questi incontri con Terezin e con Auschwitz qualche cosa di preciso e di obbiettivamente drammatico, di assai meno esistenzialistico e di assai più civilmente e umanamente universale. È vero che le sue “finestre dell’anima”, quei riquadri che nascono da fondi neri e che a loro volta si moltiplicano in altri riquadri, raccontano storie di supplizi misteriosissime, perché non possono e non vogliono essere lette puntualmente; ma è anche vero che lo spettatore avverte essere il soggetto qualche cosa di già precisato nel genere, il tormento, la reclusione, il supplizio.
La ricchissima messe dei quadri medi e piccoli di Celiberti, affrontati direttamente sulla tela o sulla carta ad olio o a tempera, è qualche cosa di ben più articolato e toccante di una grande cartella di disegni preparatori, ma di questa esprime tutta la emergenza di “officina”. Non soltanto in questa fase ricognitiva dei motivi del lager l’artista ha saputo gettare le premesse dei suoi dipinti di maggior mole, ma ha saputo catalizzarvi proposte formali e di contenuto di molta ampiezza: tanto che la fruizione di queste “operette morali” resta continuamente viva, malgrado e, anzi, in virtù della mole delle proposte, che non scartano neppure i suggerimenti di taluni “compagni di strada” di ieri, da Twombly a Kline a Saura. Alcuni di questi dipinti raffigurano ancora il vecchio ambiente dello studio che calibrò tanti felici momenti delle giornate e delle stagioni (i ben noti interni-esterni) del periodo informale; ma con una carica accentratrice della visione, dove è concesso un margine sempre minore alla divagazione, all’abbandono verso la “bella pittura”; alcuni altri saggi di questo momento ricognitivo rappresentano mondi di carattere cosmico e fantascientifico, con implicazioni anche nello spazialismo di Fontana: ma anche qui le sigle, le ripetiture dei cerchi, i riquadri apparsi come sudari di cose della scienza, sono chiaramente ascrivibili alla “follia” di Celiberti, che ora gremisce, in questi assai poco festosi canti del progresso, lo spazio portante, di sbarre, di cancellazioni, ora scatta tasselli di una serialità pencolante, allucinata, su fondi e aloni di alluminio.
Naturalmente i dipinti di piccolo taglio 1967-68 che più qualificano e fisionomizzano l’artista sono quelli dove è manifesto il motivo del lager, gestualizzato, respirato, direi, da Celiberti in un ciclo a getto costante, di pacata ossessione: nell’oblò o cerchio nero dell’esistente ecco dunque aprirsi il varco accennati emblemi nazisti, le scritte, le macchie, le scalfiture, le obliterature (di scritte da far sparire, sembra) e poi le parole gridate, messe insieme con la fretta della clandestinità o con l’ira di chi non ha più nulla da perdere, di chi ha lasciato in quei messaggi di calce sul catrame o sull’intonaco affumicato ormai soltanto la sua vita.
Questo secondo momento di contestazione informale è da considerare un ulteriore passo avanti nel suo cammino di impressionista astratto, che non sa e non vuole rinunciare alle sue premesse, non vuole rifarsi nuovo staccando dall’attaccapanni le vesti pop ed op, ma vuole precisare, anche sul piano del contenuto, le ragioni dei suoi tagli, dei suoi quadri e delle sue “finestre”, alcune delle quali davvero suggestive in opere di dimensione media: è un modo dunque di non stare più dentro all’informale puro, ma di servirsi ancora dell’informale per dire qualche cosa d’altro: una commemorazione, un memento delle angosce e delle violenze di ieri, negli emblemi allontanati di quelle angosce e di quelle violenze.
Naturalmente, come accennavo, queste del 1967-68 sono opere “aperte”, nel senso che si dovevano ulteriormente precisare e qualificare quando fossero affiancate a esse pitture nuove di maggior taglio. La cui esplosione – non trovo davvero altro termine – è avvenuta nel 1969, con una ricchezza e una completezza che ha superato assai le intuizioni e le speranze delle premesse.
In che modo Giorgio Celiberti ha affrontato questo ultimo salto qualitativo, questa terza tappa di contestazione informale in opere che hanno due e tre metri di base? Sempre più gli artisti che ieri furono informali e che d’altra parte non si sono voluti legare anima e corpo al gioco pop ed op, hanno preso coscienza dei suggerimenti dei mass media, ovvero della visualità riproposta dalle comunicazioni di massa e non disdegnano di recepire nello spazio mentale delle loro tele questo o quel segno del ready made, del manifesto, della immagine seriale. Ma sta nella misura di questa operazione, non eseguita con l’iperbole dei pop, con l’oltranzismo della avanguardia storica dei neo-dada, anche la felicità dei risultati. Dicevo che gli artisti fino a ieri informali sentono di operare oggi dentro un altro gusto, un altro clima, quello che può chiamarsi “della civiltà dei consumi”, gusto e clima che sarebbero loro nemici, se ne accettassero puntualmente la provocazione, ma che costituiscono senza dubbio un accrescimento semantico, se ridotti alla biografia e alla cultura degli artisti una volta informali. Fino a ieri essi descrissero l’angoscia di un mondo che aveva perso la guerra, oggi avvertono che l’angoscia è più sottile e interna: di un mondo, insomma, che ha perduto e perde ogni giorno la pace, la sua pace; sentono che non possono più disporre alla lettera dei mezzi informali, anti-racconto, antifigura, che debbono ridurre il margine nel quale usare questi mezzi informali; che è invece necessario aggiungere qualche elemento simbolo, qualche indicazione specifica di ambiente, di persona, dare una presenza tangibile dell’uomo nella composizione. Insomma di portare a una maggiore evidenza l’aspetto contestativo dell’informale, da muto farlo signico, aggiungere un messaggio più esplicito di cifre, di scritte, restituite alla tela la gestualità anonima della strada e del muro.
Si guardi ad esempio “L’ultima farfalla”: in una tela quasi scoperta, appena riscaldata di un grigio argento nel fondo, come un intonaco di muro sul quale abbian crepitato numerosi colpi che han lasciato traccia in tanti punti neri, una “finestra” particolarmente elaborata e al tempo stesso accecata di immagini, in bianco, nero e azzurro. Qui, come in un manuale, si assiste alla felice operazione contestativa dell’informale, incontenibile ieri ed oggi incapsulato, sceso a patti con lo spazio-racconto. Si potrebbe pensare ad uno Scanavino più impressionista, che non fosse mai stato surrealista e metafisico; ma a muovere e risentire questo impasto prezioso, ecco anche qui folgorare gli Z N di Terezin, crescere sequenze di piccoli quadrati, di timbri, di marchi, che sembrano avanzi od ombre di foto di riconoscimento e di sterminio e che si ripetono in una serialità cimiteriale; timbri marchi e foto che perdono il loro valore figurale e che, svoltando cromaticamente nell’azzurro sembrano sublimarsi nella natura, essere ancora una volta un canto alla vita.
Il medesimo sentimento è espresso a mio avviso in “Mattina a Terezin”. Su un fondo condotto in due tonalità di azzurro sono inserite diverse “finestre”, alcune riconoscibili quali emblemi di prigionia o come masse organiche trafitte e consunte, altre in trasparenza nel cielo, come se davvero i fatti del Lager fossero visti da un mattino di primavera. Sempre presente, in una singolare accentuazione, per quell’azzurro alla Van Gogh, l’ineffabile vis delle stagioni, perpetua e immortale, mentre diventa una memoria il lager, col filo spinato, il groviglio, la grata di fili elettrici, i pali delle staccionate. Il dolore non è presenza drammatica di una realtà storicamente vivente, ma non è neppure fossile quanto a memoria. Ho ricordato tessere simili di racconto – anche nella tavolozza – in Achille Perilli, ma lo sguardo di Celiberti è più dolente, la dialettica fra dramma e gioia di vivere è più dentro in questi suoi quadri.

Marcello Venturoli

(in “Le Arti”, aprile 1969)

 

 

Dopo il crollo delle ragioni poetiche dell’informale è accaduto a Giorgio Celiberti che la sua « visceralità », istintiva, il suo permanere – come tutti gli altri informali – dentro il quadro, allarmato dalla paura e semplice esistenza, hanno subìto una prima contestazione – usiamo anche noi questa parola – e i grovigli, le macchie, le sciabolature delle pennellate si sono fatti più sottili e minuti, hanno aumentato sempre più i contorni esterni, lo spazio entro cui nascevano ieri incontrastati e « in primo piano »: sono diventati emblemi, dentro « finestre », oblò, cornici come di storie. Così la concitazione e il tumulto delle immagini in una sorta di perpetuo mare agitato, sono stati frenati in passaggi obbligati di sagome, di riquadri: tipici di questo momento, che risale al 1967 e sbocca felicemente nel 1968, quelle specie di mondi o tondi di nerofumo, entro i quali crepitano come in fuochi d’argento e colorati le ferme espressioniste di ieri, in particolar modo quelle del « periodo nero » dell’artista, fra i più alti e fisionomici della sua trascorsa « carriera » informale. Nei dipinti di questo periodo si festeggiano quei tagli, quelle linee bianche a metà della ribalta informale, a « metter dentro », in recinto, il brulicare delle folle di impressioni astratte, si una dolente e come macabra fiera, o, addirittura, quelle spartizioni della tela, con scene da leggere, appunto, partitamente, eppure legate insieme da un sentimento del mondo, da una angoscia, che, se non è presentissima, appare più articolata e più « episodica » di quella di ieri.
Questo primo momento di contestazione informale nella pittura dell’ultimo Celiberti assomiglia ad eguali momenti di altri informali italiani e stranieri che han capito che dovevano muoversi senza buttare a mare intiero il loro « ismo »; ma partendosi da quello, che dovevano castigarlo, aggiungendovi sempre qualche cosa di nuovo e sottraendovi qualche altra, delle più umorose e viscerali, ormai datate: come sta facendo appunto Scanavino, con le se grandi architetture geometriche, appresso e dentro elementi informali, o Montarsolo col ricupero delle sigle pubblicitarie nel contesto del suo rigore di cubista analitico, o De Gregorio, che ha rinnovato i contributi della « Scuola di Spoleto » nelle iperboli di « ingrandimenti » della realtà dietro lenti di drammatica favola, o come delira nei « cartelli » e nei « cocomeri » il più recente Moreni, nella tempesta di prati e nevi di quaggiù, non più cosmici come le nuvole trafitte di ieri.
Il momento risolutivo della contestazione informale di Celiberti è stato com’è noto una suggestione di contenuto: il suo incontro con le poesie dei bimbi ebrei  morti a migliaia nel carcere napoleonico di Maria Teresa presso Praga, Terezìn. Certo la molla delle figurazioni del pittore friulano su questo tema è stata principalmente umana, egli è stato fortemente commosso dalla straziante urgenza di quelle parole vergini, di quegli uomini di così pochi anni, adulti per forza di morte. Tanto che volle documentarsi su taluni ambienti nei suoi viaggi, soprattutto ad Auschwitz, dove potè constatare come certe immagini ormai categoriali della cultura dell’uomo d’oggi conservino nella realtà una suggestione potente, reticolati e spranga menti, mura, scritte, finestre. Ed ecco che i suoi « impacchettamenti » informali hanno trovato in questi incontri con Terezìn e con Auschwitz qualche cosa di preciso e di obbiettivamente drammatico, di assai meno esistenzialistico e di assai più civilmente e umanamente universale. E’ vero che le sue « finestre dell’anima », quei riquadri che nascono dai fondi neri e che a loro volta si moltiplicano in altri riquadri, raccontano storie di supplizi misteriosissime, perché non possono e non vogliono essere lette puntualmente; ma è anche vero che lo spettatore avverte essere il soggetto qualche cosa di già precisato nel genere, il tormento, la reclusione, il supplizio.
Il momento del lager è gestualizzato, respirato, direi, da Celiberti, in un ciclo a getto costante, di pacata ossessione: nell’oblò o nel cerchio nero dell’esistente, ecco dunque aprirsi il varco accennati emblemi nazisti, le scritte, le macchie, le scalfitture, le obliterature (di scritte da far sparire, sembra) e poi le parole gridate, messe insieme con la fretta della clandestinità o con l’ira di chi non ha più nulla da perdere, di chi ha lasciato in quei messaggi di calce sul catrame o graffiati sull’intonaco affumicato, ormai soltanto la sua vita.
Naturalmente, come accennavo, queste del 1967-68 sono opere « aperte » nel senso che si dovevano ulteriormente precisare e qualificare quando fossero affiancate ad esse pitture nuove di maggior taglio. La cui esplosione – non trovo davvero altro termine – è avvenuta nel 1969 con una ricchezza e una complessità che ha superato assai le intuizioni e le speranze delle premesse.
In che modo Giorgio Celiberti ha affrontato questo salto qualitativo, questa nuova tappa di contestazione informale, in opere che hanno anche due o tre metri di base? Sempre più gli artisti che ieri furono informali e che d’altra parte non si sono voluti legare anima e corpo alla pop e alla op, hanno preso coscienza dei suggerimenti dei mass media e non disdegnano di recepire nello spazio mentale delle loro tele questo o quel segno ready made, del manifesto, dell’immagine seriale. Ma sta nella misura di questa operazione, non eseguita con l’iperbole dei pop, con lo oltranzismo della avanguardia storica dei neodada, anche la felicità dei risultati. Dicevo che gli artisti fino a ieri informali sentono di operare oggi dentro un altro gusto, un altro clima, quello che può chiamarsi « della civiltà dei consumi », gusto e clima che sarebbero loro nemici, se ne accettassero puntualmente la provocazione, ma che costituiscono senza dubbio un accrescimento semantico, se ridotti alla biografia e alla cultura degli artisti una volta informali. Fino a ieri essi descrissero l’angoscia di un mondo che aveva perso la guerra, oggi avvertono che l’angoscia è più sottile e interna: di un mondo, insomma, che ha perduto e perde ogni giorno la pace; sentono che non possono più disporre alla lettera dei mezzi informali, anti-racconto, anti-figura, che debbono ridurre il margine nel quale usare questi mezzi informali; che è invece necessario aggiungere qualche elemento simbolo, qualche indicazione specifica di ambiente, di persona, dare una presenza tangibile dell’uomo nella composizione. Insomma di portare ad una maggiore evidenza l’aspetto contestativo dell’informale, da muto farlo signico, aggiungere un messaggio più esplicito di cifre, di scritte, restituire alla tela la gestualità anonima della strada e del muro.
Mi par proprio che questo programma di aggiornamento e insieme di conservazione delle proprie abitudini in artisti di remota partenza sia stato affrontato e risolto da Giorgio Celiberti soprattutto in talune opere di grandi misure. Ricorderò « L’ultima farfalle », « Mattina a Terezìn », « T Z e farfalle », « Finestra sul lager », da me scelte e presentate in occasione delle due mostre personali dell’artista tenute quest’anno all’Approdo di Torino e alla Zanini di Roma. Senza dubbio l’artista ha voluto condurre il fruitore dinnanzi a un particolare teatro, alludere a un determinato momento della storia umana; ma io credo che questo viaggio nel tempo non sia per nulla retrospettivo o peggio archeologico, nel senso che l’artista ci conduce per mano dinnanzi a quella tragedia portando anche con sé la tragedia dell’umanità1969, condizionata da schiavitù e divorata da usure diverse da quelle della seconda guerra mondiale, ma non meno funeste; e come l’artista ha saputo dare in questi poetici e personalissimi dipinti la misura mai perduta dell’indistruttibilità dell’uomo, legando sigle e strumenti della ferocia alla delizia di farfalle e alla purezza di cieli turchini, ha saputo creare una commovente equazione fra le angosce di ieri e quelle di oggi, essendo l’anelito alla libertà, all’amore, per quanto calpestato e irriso, il grande protagonista dei suoi quadri.
Voglio ricordare qui « L’ultima farfalla »: una tela quasi scoperta, appena riscaldata di un grigio argento nel fondo, come un intonaco di muro sul quale abbian crepitato numerosi colpi che han lasciato traccia in tanti punti neri, una « finestra » particolarmente elaborata e al tempo stesso accecata di immagini, in bianco, nero e azzurro. Qui, come in un manuale, si assiste alla felice operazione contestativa dell’informale, incontenibile ieri ed oggi incapsulato, sceso a patti con lo spazio-racconto. Si potrebbe pensare ad uno Scanavino più impressionista, che non fosse mai stato surrealista e metafisico;  ma a muovere e risentire questo impasto prezioso, ecco anche qui folgorare gli Z N di Terezìn, crescere sequenze di piccoli quadrati, di timbri, di marchi, che sembrano avanzi od ombre di foto di riconoscimento e che si ripetono in una serialità cimiteriale; timbri, marchi e foto che perdono il loro valore figurale e che svoltando cromaticamente nell’azzurro sembrano sublimarsi nella natura, essere ancora una volta un canto alla vita.
Assai più svolto nel racconto è il tema di Terezìn e di Auschwitz in « Ricordo di prigionia », « T Z e tabelle », « Lager e cuori bianchi » e « Finestra sul lager ». Chi ricorda i passanti dipinti informali dell’artista sa come specialmente nelle opere di maggiore dimensione sia riuscito a presentare il medesimo motivo sotto cromie diverse: i suoi « interni-esterni » cantavano mattine e tramonti, primavere e autunni in una astrazione di natura così sensibile da farceli gustare come fossero fremiti di riferimenti atmosferici, paesistici; e proprio in virtù della sicura scelta cromatica, che muoveva il segno con un ritmo serrato, mai stanco. Oggi l’artista si avvale di quelle sue attitudini per riproporre il tema del lager una tensione di giallo cromo, di vermiglio: e il caso di « T Z e tabelle » una sorta di episodio della vita del campo di concentramento che viene appena adombrato. Esplicito dramma è in « Ricordo di prigionia »dal fondo chiaro in un groviglio di segni precisanti le non mai abbandonate tabelle lavagne di sterminio, zone di « bagni ». di « disinfezioni »; e sempre si squadra come il marchio di animali al mattatoio la napoleonica N del carcere di Maria Teresa, insieme col disegno grondante di un messaggio amoroso, che i ragazzi lasciano sui muri come a dire nel simbolo il loro stato, i cuori rossi, motivo ritornante di Celiberti; non cuori di carte da gioco, e neppure adombrati nel grottesco pop, ma vecchi cuori d’amore romanticamente reiterati, a domandare, a pregare, a maledire. Cuori rossi, ma anche bianchi, come nel bellissimo « Lager e cuori bianchi », un quadro dal contorno giallo su fondo nero con sopra due, tre finestre-tabelle, su cui ancora l’artista ha sovrapposto, grido su grido n quel clamore di impotenza, cuori di calce, alcuni solo nei contorni, che paiono tracciati all’ultimo dai prigionieri, altri come rami di dinieghi, di no, a capovolgere l’imperturbabilità del fondo; e poi file di cifre come pruni, lavagne circoscritte da cornici, dentro le quali sembra essere stata svolta una divisione, una sottrazione.
Ma un temperamento così ricco e tumultuoso come quello del pittore friulano non poteva fermarsi al discorso dei lager: direi anzi che, se è stato un segno di autonomia dall’informale e di coraggio nella scelta di nuovi temi umani e sociali l’incontro con Terezìn, era scontato che l’artista avrebbe superato questo momento di angoscia e di pessimismo (per la verità dettati, come s’è visto, da motivi validi, che hanno radice nella storia della generazione cui appartiene anche Celiberti), che le sue « Finestre sull’anima », le sue vestigia di martirii avrebbero subìto una metamorfosi. Non certo una palingenesi, nel senso che i turbamenti di ieri, le pensose e spesso drammatiche immagini che anno motivato l’arte del pittore al principio di quest’anno, sono rimaste in sottofondo. Le schiarite nella tenerezza, gli abbandoni sempre più fiduciosi nella gioia di esistere, anzi di vivere, fanno pur sempre i conti con un profondo giudizio negativo sugli uomini, sulla loro fatale attitudine all’errore.
Il mondo di questo pittore perpetuamente impegnato, disdegnoso del pittoresco, fieramente deliberato a non  indulgere mai – appena il tempo bastante per una serie di opere univoche – in uno stile che possa apparire una sigla e che costituisca per ciò solo un alibi di fisionomia, non è un paradiso, anche quando – come in occasione dei suoi ultimissimi lavori presentati cogli altri già noti alla Galleria Bergamini – tende ad esprimere temi e sentimenti di maggior distensione, uno sguardo più sereno sui guai di quaggiù.
Si assiste in questi quadri alla conferma dell’autenticità di Celiberti che passa gradualmente dai temi drammatici del lager a quelli elegiaci – ma non troppo – delle « coombe », non senza qualche consapevole ritorno al recente passato, come per esempio nel felice « Emblema di cattura » (che ricorda le famose « Finestre dell’anima », benché palpiti fra quelle spine e feritoie una vita animale quasi riconoscibile) e nel trepido « Farfalla e lager », dove mi pare che il palpito della vita, in quel bulinìo di pruni, acquisti una sorta di parossismo.
Interessante, a sottolineare il trapasso dai motivi di Terezìn a questo delle colombe, è « Finestra, nido e colombe », le cui singole immagini s presentano come un inventario di nuova semantica, dolo la lunga permanenza – anche gestuale – dentro le immagini dei campi di concentramento: come se questi segni e simboli (la finestra, il nido, le colombe) sottolineati con sottile consapevolezza anche nel titolo, riapparissero all’artista nuovi completamente dopo l’angoscia della passata tematica, ma che tuttavia non restassero del tutto immuni da questo prima: infatti nonostante la delicatezza della cromia fra azzurri, bianchi e rosa, spira nel quadro un’atmosfera stupefatta e tesa, se non di pericolo, di emergenza: un volo inseguito da un pensiero di morte, una organizzazione di vita (il nido, lo spazio, gli incontri dei volatili, la finestra che balena) come impedita di sprigionarsi in tutta la sua forza, un dinamismo frenato, nell’appesantimento dei corpi di questi colombi che sembra fatichino non soltanto a rimanere sospesi nell’azzurro, ma a restar vivi.
Tipica è la serie delle « storie » di colombe, segnata col numero romano progressivo; qui l’artista commenta di colore la sua gioia, ammonisce i suoi slanci vitalistici con una serie di ipotesi di consunzione, di cattura riuscendo a dare di questi volatili la misura di un simbolo molto diverso da quello della pace.
Il segno sintetico, l’incrocio dinamico nei nerofumi sulle biacche, quella corposità ad elementarità di forme, possono far venire in mente le colombe di un Picasso o di un Braque; ma se del primo in queste creature di Celiberti manca l’asciutta e quasi invulnerabile esplodenza, del secondo il preciso emblema decorativo tutto volto come per una meta morale all’eleganze: in Celiberti invece queste colombe sono uccelli – il riferimento diretto ai volatili è dato, niente meno, dai merli domestici che circolano nel giardino della sua casa di Udine in via Zanon – senza alcuna bellezza da spendere, cioè a dire, i più lontani e renitenti pretesti per il pittoresco: faticano, dicevo, a volare, a stare insieme, le ali semi aperte, i becchi e i colli in su, esprimono la fame e la sete, né più né meno come i bimbi che l’artista immaginò nei campi di Terezìn: e non a caso egli dipinge ora e quasi cancella per una sorta di pudore, nidiate di uccelli in attesa di cibo.
Nelle « storie di colombe » niente è pacifico, niente appare in una unità di tempo e di lugo, come il frutto di uno sguardo sereno su un mondo di nuova primavera. Se primavera esiste nella più recente pittura di Celiberti, questa è « un’altra primavera » (come dice felicemente il titolo di un suo quadro dal fondo rosso) nel senso che è nata dopo quelle primavere che gli uomini calpestarono e immiserirono con le violenze della guerra e dei campi di concentramento. Nelle « storie » c’è proprio questo « prima » e questo « poi » che si alternano e si ammoniscono, colombe nel nido, nel volo, nell’emblema; consunte e , insieme cresciute, cancellate e bloccate da cornici, da gabbie, dentro grandi imbuti di nidi (storia I). Colombe riviste nella nostalgia del museo di avanguardia (ho detto della differenza fra quelle di Picasso e di Braque) come nel dipinto dal fondo azzurro (storia II), una quasi monocromia di bianco e celeste, dove la testa e la coda di un uccello al centro della tela sono indubbiamente un ricordo di Braque, ma diversa è l’allarmata esecuzione, per quella frenesia di volo, per quella vita contestata nell’atto stesso di sprigionarsi, di liberarsi.
Ancora più puntualmente legati ai motivi di ieri sono « Storie di colombe III », « Colombe catturate », « Colombe a Terezìn I e II ». Nel primo di questi lavori, tra i più puri e poetici della mostra, viene in mente la « finestra dell’anima » dei lager, ma qui questo rettangolo pare inquadrare qualche cosa di incruento e di gentile, il passaggio in volo delle colombe: come sentimento questo quadro ricorda il motivo delle grandi farfalle liberate su Terezìn, frammenti di libertà in uno spazio catturante. Ed ecco, da una luce di vetrata quelle vite al di là, fuori, e questo « fuori » come una gabbia gigantesca dove le colombe volano in una perpetua fuga (« Colombe catturate »). Meno scandite, ancora nella frenesia di un segno che resta prigioniero nei grovigli del lager, sono i motivi « Colombe a Terezìn » I e II, dove i « T Z » ben noti, le scritte, i riquadri, fanno tutt’uno cogli uccelli. Pochi sono i dipinti di questa pensosa ornitologia che possono definirsi ottimistici, se ne togliamo il ben ritmato « Volo di colombe », uno dei pochi dipinti di Celiberti di taglio verticale, per la smagliante gamma degli azzurri e delle biacche d’argento, per quell’ordine degli uccelli nello spazio, di cui lo stesso pittore pare stupirsi, sottolineandone la « formazione ». Ma anche qui non è estraneo del tutto il riferimento a ben altre formazioni volanti.
La mostra alla Galleria Bergamini è terza della serie in quest’anno fertilissimo per Celiberti, ma senza dubbio è la più ricca e la più completa, per la pienezza degli sviluppi e l’ampiezza dei motivi del pittore friulano.

Marcello Venturoli

(in Giorgio Celiberti. catalogo della mostra, Milano, Galleria Bergamini, 6-24 Novembre 1969)

 

 

Giorgio Celiberti è uno di quei pittori sui quali, cominciando un ritratto a parole, pittura, vita, credo di artista, io mi fermo prima di tutto alla sua faccia. Non ci ha messo un grande studio a fabbricarsela così: ma ora quegli occhi azzurri, quell’ovale di Nazzareno, acquistano risalto da un foltume di capellone di mezza età, da una barba, metà profetica e metà satirica: e asciutto com’è, irrequieto, sempre in piedi, sempre a fare qualche cosa, rispondere al telefono – sua maggior croce – ricevere collezionisti e mercanti, far quadrare appuntamenti, pensare mentre ascolta – anzi, ricacciare indietro la subitanea voglia di dipingere, per ricominciare daccapo tattilmente il discorso che stiamo facendo insieme – appare come un perpetuo pellegrino dell’arte, uno Charlot della fantasia. Non che ingeneri il clima di un grottesco, direi piuttosto di una continua vulnerabilità all’emozione, visiva, dialettica, vittima di una ipertensione, che gli raggiunge l’acme con massicci mal di testa e che placa con sonni o solitudini di gatto ferito.
Da quando lo conosco, una misure che sempre ricorre attorno a lui è lo spazio: lo studio di via del Vantaggio, a Roma, era una specie di sala di posa per cineasti, avrebbe potuto dipingerci una Cappella Sistina;e v’erano tramezzi quasi immaginari, sedie e divani, lampade, soppalchi, balconate di legno e scale, come nel teatro di avanguardia, per recite di momenti diversi della giornata nel medesimo istante, di visite e di lavori alla stessa ora, capace com’è di fare diverse cose insieme; non con l’ubiquitò… napoleonica, ma con la bella fretta, o emergenza del suo passaggio. Lo stesso spazio s’è trovato a Udine, nella casa palazzo a due piani, dove davvero non appare come il custode di un piccolo Museo, o un ospite in castigo, ma il « titolare »  o « proprietario », sempre con cose nuove da fare e da chiedere, da programmare e da comandare, a quella donna di acciaio che è Ina, sua moglie, ai suoi collaboratori lavoranti in casa, a telai e cornici, imballaggi e stampe, barattoli, inchiostri. E non gli basta mai l’area di percorrenza, lamenta sempre di stare troppo stretto, che ha bisogno di un ambiente dove possa « respirare ». […] Dire che la sua casa sia definitiva, setto, sarebbe come dire ce la « Piccola città » di Wilder sia immaginata naturalisticamente: basti pensare a come tiene le tante e belle pubblicazioni d’arte: in pile intorno al letto al punto che si pensa al clima di un imminente trasloco, all’attesa, procrastinata, di un grande scaffale. E il grande scaffale, se vogliamo, è sempre atteso da lui, ma mentalmente, perchè l’ordine sta nel suo futuro. Del resto, come fare a non sentirsi vicino, a portata di mano, come l’acqua stando in barca, nel letto, i libri? La fase contemplativa per Celiberti, nove volte su dieci, è poco prima del sonno o al risveglio, e riandare a immagini della natura o dell’arte primitiva, o dei maestri dell’avanguardia senza quasi spostarsi, è un vantaggio: non per pigrizia, si badi, ma per conservare la continuità.
Pigro, davvero, non è l’artista: e anche quando mi convoca da Ostia e magari ho preso l’aereo a Fiumicino per Ronchi e lui m’aspetta all’aeroporto, immettendomi dopo la corsa per l’autostrada quasi direttamente davanti ai suoi quadri, non è passata un’ora che mi sento in più, tante sono le cose che deve fare, non ultima certo quella di dipingere.
Il friulano è indubbiamente artista nato, il suo temperamento ricco, il suo bello entusiasmo nello studio, lo fanno quasi immune dalle secche delle crisi ( e quando per un periodo non tocca i pennelli, vuol dire che c’è stato una specie di corto circuito, che un acuto preso male gli ha fatto sbagliare tutta una serie di opere, che distruggerà tranquillamente ) ma non è artista di scarsi interessi umani e magari « mondani »: dopo la croce del telefono, c’è quella degli amici, eterogenei, vera banda di vitelloni attivi, con cui percorre il Friuli in varie tappe conviviali, sportive; e tu, critico d’arte, corri il rischio di essere da lui catapultato a capo tavola davanti a una tovaglia, per imbastire il discorso sulla cucina o sulla coniugalità, di fare magari il moderatore di commensali divisi sull’amore di gruppo.
Altra faccia di Celiberti è quella della natura: Grado, Aquileia, Gorizia, Trieste, le colline del Friuli, i suoi fiumi di limpido azzurro, i sassi dei greti e dei viottoli; e non perché la natura della sua terra egli rifletta puntualmente nelle immagini, perché non può fare a meno di questa misura, di questa compagnia; che poi in qualche modo traspare anche dalla sua più funeraria farfalla.
E come non dire di un certo sorriso del pittore (De Amicis non c’entra) quando andiamo a trovare sua madre, la signora dei fiori? La causa della mamma è prima di tutto il suo giardino, con gli alberi di magnolia, di mimose, con la coltivazione di piante che lei conosce per fisionomia e non per nome; ma anche le stanze dell’appartamento sono occupate da diecine e diecine di totem benigni, piante grasse di ogni sviluppo e statura. Ah il piacere di sorbire il caffè in quella cucina-serra! La mamma di Celiberti è una delle sorelle del compianto pittore Angiolotto Modotto e v’è una grazia un po’ cecoviana, nella nostalgia di certi discorsi, nell’entusiasmo per il figliolo, che ha preso la fiaccola dello zio, in un momento così diverso da quello in cui operò il capo della « scuola friulana di avanguardia » e con uno stile di tutt’altra ragione.
L’ultima volta che sono andato a trovare l’amico artista, fui lieto di constatare quanto fosse il volume del lavoro svolto, dal momento, assai felice dei « lager »: quei dipinti di vasta dimensione in cui per simboli e scritte, finestre di prigioni, vestigia di presenze, fili spinati e farfalle nel lager di Terezin, l’artista aveva dato una misura di sé assai più alta e consapevole. Già insieme con Marco Valsecchi, che era venuto a Udine per una conferenza nella Sala Ajace del Comune sulla Metafisica, avevo festeggiato la nuova serie delle farfalle, spessite in una sonora materia a tutto impasto, un’eco di Morandi e Fautrier, come era accaduto anche a Calo Mattioli, con cui Celiberti ha punti di incontro.
Ora delle farfalle era passato al motivo dei « corvi ». Non si tratta soltanto di argomento diverso, ma della accentuazione, con questo nuovo tema, di un aspetto drammatico e privato della sua angoscia del tempo, ieri in chiave civile, oggi in chiave, direi, esistenziale. Sono dipinti che ripetono appassionatamente il medesimo tema, con una reiterazione che è tipica di Celiberti, il quale procede a cicli e sviluppa il suo discorso come dal medesimo quadro: per una certezza che la forma della pittura sia il suo contenuto, per una ricchezza di ispirazione che riempie – Morandi insegna – in varia cadenza emotiva, il medesimo schema.
La serie dei corvi non è diafana, ovviamente, come quella delle farfalle: si tratta qui di uccelli ad ali aperte, benché abbiano qualche somiglianza con i passati soggetti, per l’apertura delle ali. Ma mentre nelle farfalle era conservata la vita, anche se nell’ultima sua vibrazione, qui il volatile è morto, una sorta di imbalsamazione. Difficilmente davanti a questi quadri si può parlare di volo, anche perché non v’è nulla di dinamico e di incielato: piuttosto un simbolo di morte, di distruzione, dato dall’assenza della vita, nello sfondo e di una materia erta, petrosa quasi fossile, nella « figura », bloccata in argenti persi, miche, liste plumbee, porosità di granito.
Sono stemmi di sconfitta, blasoni di ignominia. Ed è incredibile come al fondo di questo vitalista gentile e di modi gai, sia tale messaggio. Né è a dire che la cromia abbrunata (la quale proviene dal gusto del suo « periodo nero », sempre ritornante nei cicli di maggiore intensità) tocchi aneliti di vita e di speranza, come in certi suoi simboli dei lager e delle farfalle: sono nei « corvi » gialli e bianchi funerari, rosati di aurore al di là della terra, impronte di ombre su nevi e ghiacci. Dicevo prima, degli « stemmi ». E v’è tutto un gruppo di opere nella officina di Celiberti che l’artista ha voluto chiamare così, realizzati con lo schema dell’uccello ad ali aperte e becco in su, su tondo nero, bianco, bianco-nero, o di altra cromia, quasi ad accentuare araldicamente il simbolo della distruzione.
I primi dipinti dopo la serie delle farfalle sono stati eseguiti come rilievi di impasto piombi, argenti, vertebre o architettura di un corpo, che cessando la vita, si sfalda per una istantanea fossilizzazione. Colpisce il fatto che l’artista apra le ali di questi reperti, ne conservi la tensione dei colli e delle teste; e sovente la sagoma stampata, non a stemma, ma in posizione di volo – il corpo per la latitudine del quadro, le ali, una sopra e una sotto – sottolinea il ricordo di un incontro con lo spazio.
Ma, come ho detto, sono voli araldici, su spazi di inesistenza. A guardar bene queste forme, trovi il fossile, ora sfaldato come per una immersione in una impalpabile polvere di luce nera, ora depositato su un reticolo, o, per una iperbole icastica, azzeccato dentro un cerchio di rosso bruno.
Vicino a questi dipinti di taglio medio, costituiti da una sola immagine frontale sul fondo, sono diversi quadri di dimensione, dove il motivo dei corvi è ripetuto in più immagini, di stampo uguale e di cromia diversa e nelle « tecniche » più distanti, al comun denominatore del tono e della materia: ora in scomparti tutti dipinti, ora in collages, con carte bianche o stoffe, ora in monocromie per una sottrazione d’iride funeraria, ora in matasse di segni che abbulinano la forma, l’arruffano, ora ne sottraggono gli spessori per una ridda di graffiti.
L’artista non ha abbandonato del tutto il motivo precedente delle farfalle, che ha continuato a dipingere per un semestre, dopo quello dei « corvi ». Ne ho viste una diecina almeno, di splendide, con varia cromia su fondi intensi, azzurri, rossi, ramati, nivei, con sfaldamenti per cui anche queste farfalle sono più fossili, più reperti, di quelle dei lager; ed è sorprendente, che qui, che quando Celiberti porta le farfalle in primo piano, le stacca dal contesto « civile » del suo racconto astratto su Terezin, queste vite fuori delle prigioni sono già morte, assai più costrette e consunte, perché la loro prigione l’hanno dentro. Nei motivi delle farfalle, in cui l’artista ha raggiunto la massima confidenza, una rara felicità gestuale, si potrebbe temere il limite della maniera. Ma conforta la grande varietà delle soluzioni formali: grafica a matassa, piatte sagome come foglie di camelia su fondo nero, collages di reti celesti, bastoni di schegge che escono da una atmosfera…
Anche nella vasta produzione grafica, litografica, l’artista non si fa irretire dalla maniera. Direi che si tratta di « stampe » per modo di dire, perché sono tutti pezzi unici, anzi lo schema fisso, se mai, è nella memoria di Celiberti, non nello stampo. Tanto che dinnanzi ai numerosi lavori « grafici », il fruitore avverte una singolare impressione: a primo sguardo vede la sagoma – sempre uguale – mentita nelle trasformazioni del fondo; ma restando l’occhio sull’immagine per la giusta durata, si accorge di quale analisi è stato capace il pittore, nel riempire la sagoma, fondo e corpi, ali e vertebre.
E non è a dire che questa flessione di « pessimismo » pesi sui suoi amatori; il pessimismo è negativo solo quando non sa rinnovarsi, quando al fondo del giudizio non sia sempre una vitalità, una forza, diciamo pure una bellezza, senza le quali la pittura non canta, non è, come anche in questo Celiberti, messaggio di amore e di vita.

Marcello Venturoli

(in Giorgio Celiberti, catalogo della mostra, Milano, Square Gallery, 15 marzo-7 aprile 1973)

 

 

I muri antropomorfici del più recente Celiberti

E’ così arduo esprimere con la dovuta forma un preciso contenuto (al punto che è la forma il contenuto dell’opera) che sovente l’artista permane in cicli, svolge un tema sempre fisso; e proprio perché quello e non un altro, conferisce, a suo avviso, il massimo prestigio, la massima liberazione al suo stile. E così anche Giorgio Celiberti, il quale, come è noto, dal ciclo dei lager è passato a quello delle « farfalle », poi a quello dei « corvi », fino alle vaste tele che riassumono, nel ritmo, nella potenza compositiva, nella tecnica (l’affresco sulla tela) tutti gli sforzi, già così positivi e poetici, dei suoi precedenti momenti.
Ma era fatale che il pittore friulano mutasse pelle ancora una volta, aggiungesse alle imprese di ieri un’altra impresa, che potrei chiamare dei muri antropomorfici, vale a dire delle figure umane ritrovate o fabbricate nella tela-intonaco dei suoi affreschi espressionisti astratti. E si badi bene: come non v’è stato alcun brusco trapasso e, tanto meno, alcuna contraddizione in termini, tra la fase dei lager e quella delle farfalle (dalle prigioni civili, a quelle esistenziali, dalle farfalle dietro i reticolati dei campi di concentramento, fra drammatiche scritture e vestigia di immani sofferenze, alle farfalle la cui libertà nel vuoto e nel tempo è un’altra schiavitù), così non c’è stata frazione tra il momento delle « farfalle » e quello dei « corvi » anzi, un continui e sempre più consapevole sviluppo verso un tipo di astrazione materica, verso il gusto delle « paste alte », verso quella archeologia dell’apparizione, quella angoscia di origine esistenziale, che si organizza in emblemi di sconfitta, intensi come emblemi di vittoria.
Cambio di pelle, d’accordo, ma il… serpente è il medesimo, col suo veleno di immagini distrutte, con la sua vitalità di ritmi bianco neri, di monocromie desolate, col suo respiro sensibilissimo in bilico tra la presenza e consunzione, tra attimo fuggente e archeologia. Perciò in questa fase di « figure » l’artista è sempre più se stesso. Già negli ultimi due anni si assisteva più che a un permanere accarezzato nell’area delle farfalle e dei corvi, ad un prevalere dello stile sul soggetto, nel senso che un’ala, una forma organica della natura, assumevano sempre più il valore di pretesto, la materia variava talmente per cromie, rilievi, rarefazioni, che lo « schema del racconto » si labializzava fino alle improbabilità fino a quel clima di non figurativo entro il quale, a buon diritto, opera oggi il pittore, che non può non essere astratto. E non già astratto, tout court, per una scelta ideologica e programmatica, ma perché la sua officina è visitata da tutte le avanguardie che prendono le mosse dalla grande astrazione.
Celiberti era giunto ad una tale libertà di segno a un tale potere di levitazione della materia, che le sue farfalle e i suoi corvi potevano assumere qualunque altro valore di emblema: ali come corpi umani, uccelli come vertebre di figure. E perciò giunge coerente questo nuovo discorso antropomorfico, che si lega e insieme svolge il precedente. Tanto che nella personale scelta per la Square gallery di Milano, pere della passata tematica e della nuova si danno felicemente la mano, vivono una compresenza di problematiche e di risultati. Come qualità, intensità rappresentativa, esemplarità di sintesi nella notazione sensibile, certe sue « farfalle » e certi suoi « corvi » valgono questi « cammei » murali di Veneri disastrate, perché il comun denominatore è sempre quello di un esistente che nell’atto stesso di nascere si fossilizza.
Tuttavia non si può festeggiare la novità dei « tempi », a cominciare dalle figure femminili bianco su bianco, con quella potente eppure approssimante plastic azione, levitate, incise sullo spessore dell’emulsione o affresco che si voglia, come su un habitat di luce. Donne in piedi, frontali o di schiena, che nel diroccamento materico conservano tuttavia la positura « bella », la grazia della statua antica, che vista invece come attimo fuggente, cancella tutta o quasi la sua architettura. Sembra che l’artista faccia ritratti di presenze femminili brevissime, di rapidi deperimenti di durate: psicologicamente parlando parrebbe che Celiberti affidi al suo diario amoroso il messaggio di una estrema… volubilità, una donna al giorno, eppure sempre la stessa.
Ma non basta certo una « giustificazione » psicologica a fare una fantasia e di questa fantasia uno stile: penso che abbia molto aiutato il pittore di Udine la sua vasta e avvertita cultura figurativa, quel senso di responsabilità che lo guida ad ogni svolta del suo lavoro, la coscienza, per esempio, che ad ogni riproposta umanistica, l’artista di oggi non debba ricominciare da capo, diciamo così dal… Canova, che suoi fratelli maggiori hanno già pagato per lui certi rischi e per lui hanno superato certi difficili ostacoli: insomma la « nostalgia umanistica » del Celiberti 1973 è rifusa nella lezione, prima di tutto, di Giacometti e della Richier – talune figure sembrano cammei eseguiti con mano di scultore espressionista – e poi dei « visages » di Fautrier, per l’invenzione di zone rilevate ovoifomi, che richiamano il particolare carnicino delle paste alte del grande informale francese.
Ma Celiberti non pianifica e non schematizza le sue invenzioni materiche: questo gruppo di donne rievocata, esprime tattilmente, nella giustapposizione dei bianchi stesi e in quelli a rilievo, diversi tipi di densità, le nubi, la bambagia, il marmo, il fumo; e certamente qui la materia archeologica di ieri canta e si muove assai di più.
Accennavo a Fautrier e alla policromia dei graffiti e rilievi del più recente Celiberti. La presenza della vita in un corpo umano, direi piuttosto della carne, stupisce e accora, per esempio, in quel dipinto della figura a braccia aperte, nelle gamme del corallo e del cotto, raggiunta con un parossismo di segni sull’affresco, tagli, stilettate di luci bianche, che individuano e insieme cancellano questa presenza; o in quell’altro affresco su tela dove il ventre, le gambe e le spalle della donna sembrano mentire il color della pietra, un’impronta umana su minerale.
E poi tronchi consumati, straziati, isole di carne, come appunto nel primo Fautrier, quando la sua disperazione esistenziale era motivata dalla tragedia della Francia sotto i tedeschi. E aloni di cromo su cui si consuma il giallo di Napoli, una paglia luminosa, la figura femminile; o sul nero di lavagna e dentro un riquadro che pare segnato dal gesso, un corpo di tufo, testa, seni, ventre, che faticano a farsi forma e sono la forma conclusa di questa fatica. E che dire di quella forma a gocciola su fondo rosso pompeiano, un cammeo terremotato dove sembra ancora alitare l’odore dello zolfo dell’eruzione, di quelle orbite, vertebre bianche, scavate da  una cenere ?
Dicevo che non v’è differenza tra la labilità di vita, il respiro trafitto delle passate farfalle e dei corvi di Celiberti e queste immagini di figure: solo che queste figure sono il modo oggettivato, raccontato, della fragilità umana, quasi che l’artista sentisse meno necessaria che nel passato, per la felicità e l’autorevolezza della sua astrazione, la metafora. Restano tipiche e memorabili queste sue figure scheggiate in aloni, come se una sagoma scolpita in pietra nera acquistasse cornice di luce; figure a volte dolcissime, che conservano le proporzioni e l’eleganza statuaria, anche se lo « scoppio » o il momento della distruzione è già avvenuto.
La tendenza a dare una sola figura come un emblema, questo iper-lirismo materico cha ha avuto tanti risultati positivi nelle opere di tagli medio e piccolo di Celiberti raffiguranti farfalle e corvi, si ripresenta in questa fase dei muri antropomorfici, Ma non così drasticamente; già nell’artista friulano è più disponibile la carta del racconto, quell’attitudine compositiva della reiterazione nello spazio mentale della tela, quel levitare e intridersi di più figure: come se un Sironi assai più libero nella materia, polivalente nel racconto, procedesse per scenici scomparti, Celiberti si racconta anche misteriose scene di imprese, come nel dipinto tripartito con la cornice ruggine, che divide « pannelli » di pietra istoriata; o in quell’altro, bellissimo, delle quattro pareti o lastre, che sembrano di bassorilievi e di graffiti, la cui poesia è nel fatto che le imprese raccontate sembrano avvenire nell’atto stesso che l’artista dipinge.

Marcello Venturoli

(in Celiberti 74, catalogo della mostra, Bolzano, Galleria Les Chances de l'art, 11-25 maggio 1974)

 

 

Vi sono artisti che vivono perpetuamente le problematiche dell’arte dovunque si trovino; molto spesso, anche per me che faccio la critica d’arte da sempre, costituiscono un’ossessione, perché diventano macchine mentali della pittura quasi fuori della vita, né quella loro fredda fiamma riscalda il rapporto umano. Altri artisti – maestri addirittura – sono, all’opposto, nella loro gioia di aprirsi alle cose del mondo le più semplici e comuni, davvero uomini come tutti gli altri, senza che facciano per questo alcuno sforzo. Anzi, quando li voglio richiamare all’ordine, nel senso di ricordar loro il ruolo che debbono tuttavia occupare, si meravigliano,. Qualche altro ruolo non saprebbero proprio, se non quello di fare,  di aver fatto e di sperare di fare ancora delle belle opere!
Uno di questi è Alberto Burri, un altro è Giorgio Celiberti. I due, per la verità, hanno in comune ben altro, per esempio, il primo lirico reperto del relitto contemporaneo nella più alta icona, il secondo questo lirico reperto attinge ad un tempo remoto; nel prima parla l’”oggetto trovato”, nel secondo la grande pittura; non a caso, le sue opere più straordinarie sono eseguite con una tecnica particolare di “affresco”.
I due hanno, dunque, in comune quell’umana, radicale simpatia per cose e persone in cui sono in grado di immergersi completamente fuori del lavoro. Eppure, devo svelare un segreto? Tanto Burri quanto Celiberti sono artisti non solo capaci di distinguere nelle più sottili sfumature pregi e difetti altrui, ma di conoscere come stanno le cose negli sviluppi delle ultime avanguardie: solo che non vogliono mai parlarne.

Marcello Venturoli

(in Giorgio Celiberti, racconto di un credo d’artista, in “Messaggero Veneto”, 2 aprile 1996, p.9.)

 

 

Le stele di Celiberti

Le massime unità e compattezza delle stele ultime di Giorgio Celiberti sono prima di tutto un risultato stilistico, direi morale; ma il metodo della sua felice mano artigiana nel recupero di legni di case demolite è estremamente composito; queste antiche facce della distruzione e dello sfacelo sono ricoperte di vari materiali, terrecotte, affreschi, allumini, per la nidificazione dell’immagine, sempre più autonoma dalla pittura e sempre meno scultura di mere forme, fine a se stessa. Se dopo l’identificazione del mondo di sterminio di Terezin con quello di oggi, l’artista ha saputo darci profondo il senso del perdono .- che culmina nelle opere del “periodo bianco” tra il 1995 e il 1996 dove il martirio patito diventa conquista di vita e fiducia nel futuro – in questo splendido gruppo di stele Celiberti fa diventare gli antichi emblemi di dolore e di violenza, di prigionia e di solitudine, segni di amore e di confidenza: sia perché gli stessi emblemi, le stesse figurazioni, le stesse trepide testimonianze, moltiplicati, ingranditi, ritessuti sulla superficie delle nuove forme plastiche svettanti sprigionano una formidabile carica di vita, sia perché per l’artista la memoria del dolore è soltanto l’inizio dl suo attuale sentimento di vita. Il dolore ha fatto il suo corso nella serena maturità di chi può finalmente prendere l’esistenza nel bene nel male, la storia nella sua profonda crudeltà e l’uomo nel suo eterno candore. Che il maestro friulano abbia raggiunto una piattaforma dalla quale guardare la vicenda umana e indicare un comune denominatore con l’amore, si avverte tattilmente restando in mezzo a queste ultime stele, specchianti le grandi ferite dell’umanità, che pur vive e sorride, nella compresenza di forze distruttive e di sorgiva bontà, presentate come in grandi, perentorie insegne. Il pittore – scultore, nello spazio eccezionalmente invitante e creativo del suo nuovo studio a Udine, ha affrontato con le materie, le più raffinate e pensanti, le superfici preparate per la stele, fisionomiche come incarnati, trepida come sudari: il colore si articola e vi cresce quasi nella misura in cui l’oggetto svetta a misure più alte della statura umana. Un altro aspetto riconoscibile di queste stele celibertiane è la frontalità; ma non come se un quadro si staccasse dal muro per assumere diritto di basamento, chiedesse altro spazio attorno, ma come una cosa che sia man mano riscattata dalla memoria e venga in primo piano come interlocutore reale, non soltanto quale “testimone del tempo”, ma del presente. Le opere hanno tutte in effetti un sottotitolo (“Testimoni del tempo”) ma si distinguono molto nelle loro individualità.
Ora con risvolti di liriche e benigne atmosfere (“Annunciazione della sera”) ora nella intesa, persuasa apologia degli incanti più cari e privati; anzi, l’opera dell’artista sembra dare ai fruitori la prova manifesta, giganteggiante, incontrovertibile che l’eros, malgrado tanti grigiori, esiste, anzi è oggetto rinnovato di festosa meraviglia. Eccoci allora a “Testimoni del tempo” che antichi architetti dell’armonia familiare e poeti hanno espresso: “Ardore di giovinezza” (in metri 1 e 84 cm di altezza) e “Maestà della legge d’amore” (metri 2.15) dove il cuore perduto di Terezin diventa stemma di geniture. Si sviluppa in un agile stele di un metro e 77, con una inusitata bi frontalità, il “Tabernacolo degli amori terreni”.
È un fatto commovente che la combinazione della materia e dei segni in un oggetto di così sintetica e astratta forma, si riveli in una spontaneità assoluta, come un taglio di Fontana e una combustione di Burri; ma è, ovviamente, il risultato di un “metodo” dalle profonde casse di risonanza. Dimensione geometrica dell’oggetto e al tempo stesso sua forza inequivocabilmente…, portante; archeologia di segni superstiti e insieme insegna di smalti policromi, di confidenze e di allegria.

Marcello Venturoli

(in “Contemporart”, n.24, aprile-maggio 1997)

© www.giorgioceliberti.it | Giorgio Celiberti | Via Fabio di Maniago 15, 33100 Udine | Partita IVA: 00060910304 | info@giorgioceliberti.it